SE GIOCASSIMO E BASTA

 

Il racconto di Maria Sole Petroni mi fa venire in mente un amaro gioco dei contrari (al gusto di chinotto; colore autunno) dove i termini opposti convivono e, ad esempio, è possibile amare rinunciando ad innamorarsi. O meglio: continuando ad essere innamorati di ciò che non può più tornare. Con le illustrazioni esclusive di Cristina Spanò e la colonna sonora degli Amari: clicca play prima di leggere!

 

“30 anni che non ci vediamo”, Amari
 

L’ultima volta che ti vidi eravamo in un caffè. C’erano tutti: Carlo, Nicola, Emma, Giulia. Non una parola fra noi, non uno sguardo: eravamo non solo come estranei, bensì come esseri perfettamente statici. Nel mezzo una spessa cortina di ferro che separava due binari. Io però ti vedo e tu? Quel giorno, il sabato in cui il corso finiva, vestivi una camicetta di lino bianco che con la luce del lampione e la brezza tipica di una qualunque sera di giugno, si appoggiava al tuo incarnato pallido con un’eleganza che rendeva la tua figura sofisticata. E poi i capelli. Il vento il faceva danzare. Lunghi e del colore del Marsala invecchiato. Li hai poi tagliati? Quella sera io ti amavo. Bevevi una limonata e parlavi dei tuoi progetti per l’estate: la vacanza in barca a vela con tuo padre, il corso di fumettistica, Barcellona. Dovevamo andarci insieme a Barcellona. Era il nostro piano. Anzi no. Era il nostro viaggio. L’avremmo fatto con la mia macchina. Chissà chi pensavamo di essere: centinaia e centinaia di chilometri con una “due cavalli” blu.
Era sabato. Io portavo gli occhiali da sole, scuri, cosicché nessuno potesse vedere dove guardavo; intanto bevevo caffè amaro. Stavo studiando un volto che era stato mio, un volto che avevo modellato con le mie stesse mani; e poi giù, scendevo alla spalla ossuta, al seno, ai fianchi, all’incavo delle tue cosce. Le tue caviglie. Così sottili da sembrare di cristallo. Eri creta per me.
Tu fingevi che io non ci fossi; ma io ti conosco, e so che lo facevi per compiacere il tuo orgoglio. Perché davvero sei di creta. Fuori e dentro. Il tuo cuore le armi non le possiede. L’ho sempre saputo io. Tutte le volte che mi dicevi: “sono un leone”, ti si leggeva negli occhi che ti sentivi un coniglio. Bevevi una limonata. E poi ne hai ordinata un’altra. Avevi sete. Nell’attesa sigarette. Mai provato con il chinotto? A me quello disseta. A casa ne tengo una scorta personale sotto la scrivania, così nessuno me lo ruba.

Si era fatto tardi, hai fatto per alzarti ma Emma ti ha trattenuto. D’altronde era l’ultima sera insieme. In quel momento ho sentito come un colpo. Una bacchettata in fronte, ma di quelle forti, come le dava il Maestro Piero a quel povero somaro di Giovanni. Chissà che fine ha fatto Giovanni. Sapevo che se n’era andato a vivere in campagna ad allevare lumache. È sempre stato un po’ strano. A te non piacciono le lumache. A me sì. Sono morbide. Sono femminili. Peccato la scia. Viene compensata dalle corna però. Limonata e chinotto. Giallo e marrone. Colori autunnali di bevande estive. Bello no?!?

“Forse è meglio che da qui proseguo sola”. Un biglietto per andartene da me. E poi nessuna parola, o meglio, tante parole mai dette. Tante questioni irrisolte. Tanti interrogativi vaganti. Mi hai lasciato una grande paura, sai. Il tuo abbandono mi ha spaventato a tal punto da pensare di non riuscire ad innamorarmi di nuovo. E infatti mi sono lasciato andare fra le braccia di tante donne, anche bellissime, ma tutte un po’ così. Tempo un mese e via. Il tedio, la noia.

Con te no. Confronto, lotta, riconciliazione e subito sangue, lacrime e libertà. Ero pronto all’amore. Che poi che cos’è l’amore se non salite e discese? E quando vai sul rettilineo? Quando puoi finalmente ingranare la quarta marcia … Che succede? Succede che sei felice. Di quella felicità che si insidia fino ai peli e che diffondi parlando. Ecco perché la gente vuole la felicità. Che brutta parola “volere”. La felicità non la cerchi, è lei che ti trova.


Se scavi come un forsennato, è lì che sei fottuto. Io lo sapevo che anche i miei peli erano felici. Avevano accanto la loro idea di bello. Ti alzi. Ora hai finito anche il caffè; io sono passato alla crema catalana. Vedo le tue gambe. Lanugine bionda sui tuoi polpacci. Dai un bacio ad ognuno. E poi, quando arrivi da me, fissandomi negli occhi, esordisci con uno scontato: “Ciao”. Non sei mai stata scontata tu. E dovevi esserlo proprio allora, al tempo del nostro addio? Forse quella è l’unica cosa che non ti ho mai perdonato. Avevi gli occhi lucidi. Ma tu non piangi. Sei una dicotomia, mia cara. Delicata e brutale. Umile e orgogliosa. Timida e feroce. Tenace e flessibile. Camminando sui tuoi tacchi, hai svoltato in via Carducci e sei scomparsa. Però ti sei voltata. Maledetta. Sono passati quindici anni. Ti ricordi il vecchio signore che abitava nel nostro piano e che usciva tutti i giorni con la borsetta da postino in ricordo dei bei tempi andati? È morto un mese dopo che te ne sei andata. Incredibile, ma al tempo ci aveva lasciato una vecchia macchina da scrivere. Era di sua moglie Palma. C’era un biglietto incastrato dentro con su scritto: “Ai miei affascinanti vicini”. L’ho buttata. Ho sbagliato, lo so. Ma tanto chi l’avrebbe usata se non tu?
Io nel frattempo mi sono sposato. Si chiama Livia e le voglio bene. Si prende cura di me. Era una di quelle belle donne di cui ti ho parlato. Solo che a differenza delle altre ha i capelli come i tuoi. Ed un nevo alla base del collo come ce l’hai tu. Non l’avrai mica tolto?
Ho due figlie: Greta e Anna. Sono alte e anche a loro piace la limonata. So che vivi a Parigi adesso. Lo dicevi che era la tua città. Scrivi libri per bambini. Ne ho comprato uno. Bella la storia del trita-carta che sminuzza solo i fogli con brutti pensieri. Il tutto me lo ha detto Carlo. So anche che ti sei sposata con un cuoco di Lione. È più bravo di me? Può darsi… ma non credo.

Quello che ho scritto non ti arriverà mai. Se lo farà, le macchie che vedi nel foglio bianco sono dovute al fatto che sto mangiando i biscotti al burro. E poi non scrivo bene. “Periodi troppo brevi e frasi sconnesse”, diceva il solito Maestro Piero. Però, ho imparato a parlare. Ti ho aspettato mentre lo facevo; esisto da anni e cammino sul filo come un trapezista. Non saranno le parole a fartelo capire, ma il fatto che il nesso logico qui c’è. È la mia logica. Adesso scappo. Vado a cucinarmi i pomodori fritti. Sì, sì… i tuoi preferiti.

 

Maria sole Petroni ha vent’anni, studia lettere moderne e vive a Milano.

Cristina Spanò nasce felicemente a Roma e si laurea all’ISIA di Urbino in Progettazione grafica e comunicazione visiva. Attualmente vive a Barcellona, le piace mangiare le zuppe e sfogliare un bel libro. Ha anche creato con Giulia Sagramola l’etichetta di autoproduzioni Teierahttp://www.cristinaspano.com/

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