CENERE NON POLVERE
Il punto di vista è quello delle rotaie che bruciano verso Parigi. C’è il nero ferroso, il piombo, i graffi. Ma anche il bianco accecante – e un grido intagliato nel letto. “Cenere non polvere” è il racconto magmatico di Cristina Cipriani affrescato dai disegni cinerei di Daniela Tieni e dall’infuocata “Lezioni di poesia” di Giorgio Canali.
Giorgio Canali, “Lezioni di poesia”
Il macinare del piombo sulle rotaie.
Le nuvole. Il cielo stracciato.
“Andata per Parigi?” Le parole risuonano più grandi dietro alle lenti di quegli occhiali. Aspetto il mare. Perché quando arriva all’improvviso e squarcia lo sporco del finestrino. È sempre come la prima volta.
“In viaggio per Parigi” rispondo a lei. Carrozza 18 Posto 26 Non fumatori. Eppure lei al posto 27 ha i capelli fumosi. Vanescenti.
Un viso tutt’occhi. Un’eco prolungata dalle lenti spesse degli occhiali.
Non so se è un’andata. Non so se è un ritorno. Ma è qualcosa di più degli spostamenti di tutti i giorni. Passaggi tra due vuoti. Qui qualcosa c’è o voglio colmarlo.
Eccolo. È arrivato, come fosse la prima volta. E’ nero e roccioso. E ruggisce, ruggisce a me.
Perché nelle lenti di quella signora Posto 27 Finestrino, lo vedo mansueto. Il mare.
“Cosa ti porta a Parigi?”. Riattacca. Nella sua collana che ha la forma di un ricordo che se n’è andato.
“Mi fermo poco, vado a trovare un amico”
“Un amico speciale?” Il sorriso di intesa si incastra tra le rughe della bocca.
Vorrei fermarmi a parlare con lei. Vorrei lasciarle respirare gli anni che ho davanti e la mia inconsapevolezza. Vorrei lasciarle mangiare la mia giovinezza con gli occhi.
Ma. Inclino la testa al finestrino. Tra i grovigli della terra che si sgrovigliano al passaggio. Nelle braccia infinite della strada. A lei lascio solo la mia schiena, il mio profilo e lascio le parole rallentare ed evaporare.
La deluderei, perché dovrei dirle che tu sei un’ombra che mi siede accanto da anni. Ma di cui non conosco i lineamenti. I colori. Gli odori. I respiri.
La prima volta avevo 14 anni. Una casa nuova e io mi sentivo una ladra che si aggira in una proprietà altrui e ne succhia l’anima. La mia camera l’avevo rubata a te. A te che te ne andavi a Parigi ma che in quella stanza ci saresti stato per sempre perché dietro al parapetto del letto avevi inciso il tuo nome. La tua rabbia. Ti urtavo ogni notte quando spegnevo l’abat-jour.
Nella ferita del legno avevo sentito un grido. Lo stesso che mi si sferzava all’interno. Ogni giorno, lento, erodeva il respiro.
Tu. Come me. Con me.
Ho deciso. Ho voluto. Ho cercato il tuo indirizzo. È stato così che ho iniziato a scriverti e tu a rispondermi. Dieci anni di lettere. Le domande sono diventate risposte, le risposte domande. Il presente si è coniugato in passato, il futuro in nostalgia, a volte.
Parigi. Saluto la signora che ha ancora gli occhi appesi agli anni che ci separano. Vorrei rassicurarla. Polvere non voglio diventare. Le direi che ho fatto questo viaggio. Fino a te. Perché sono sette mesi che hai smesso di scrivere. Stia tranquilla. Voglio bruciare. Sono qui. Cenere non polvere.
Rue de Rennes 106.
Sembro una zingara. Con la terra nei capelli e il vento nelle unghie. Il caldo ha tagliato il vestito dall’aria e l’ha cucito alle mie gambe. Il trucco sciolto infanga il viso.
In questi momenti le domande corrono come una mandria che ti calpesta e trascina via le risposte. Entro nella tua casa. Un palazzo di un bianco accecante. Scheggia gli occhi a fissarlo.
In atrio cerco quel profumo. Indelebile. Rassicurante. Mi dicevi sempre. Eppure Quel profumo di limone è un rombo assordante per me. È la frenesia di coprire un marcio. Che fingi ma tanto c’è.
Aspetto che arrivi lei. La portinaia. Con le ancore nelle gambe. E il lamento di metallo nella voce. All’improvviso, trovo una donna alle mie spalle, nel silenzio. Si presenta, è lei. Ma come può? Nei miei occhi è arrivata a passi d’aria, non c’è gravità a schiacciarla. E quella voce per me sembra che canti sempre, anche quando parla. Ti chiama per cognome.
Torni verso le 13. Ti aspetto sulla casella della posta che ha inghiottito i nomi lasciando solo le iniziali. Corpi senza volto.
L’ascensore si spalanca. Esce una ragazza. I passi vistosi la annunciano. Deve essere quella di cui sei sempre stato un po’ innamorato. La vita strozzata in una cintura. La cerco, ma non c’è, non la trovo dietro a quella maschera di trucco.
I passi si allontanano come uno scrosciare di mani. Quando saluta, saluta il tuo nome. Il tuo nome. E arrivi. Tu. Sei un’ombra che scivola in ascensore a passi invisibili. E io scivolo con te. Con i miei passi che non so che rumore hanno.
Vorrei starti di fronte. Guardarti, dare una forma alle tue parole, finalmente.
Ma le pareti sono lame che tagliano l’aria. Posso solo starti affianco e guardarti nello specchio che ci sta davanti. E ancora di te ho solo un riflesso.
Gli occhiali da sole ti mangiano la faccia. Non hai occhi.
Ad un tratto sollevi le lenti. Mi tocchi con lo sguardo. Lo fai come tutti. Con gli occhi che scottano. Ma per me sei ancora senza occhi. Perché sei qui ad un alito da me, ma non ci sei.
Non ci sei nella casa. Non ci sei nelle persone. Non ci sei in questo ascensore. In questo specchio che ti ruba il respiro e ti riduce ad una cosa. Tutte le parole svuotate.
Allora premo il bottone rosso che grida “Alt”. All’improvviso.
Entro nel tuo spazio. Presso l’aria già stretta e mi infilo di fronte a te e nutro quello sguardo che chiede. E ti tocco. Mentre tu resti così. Non parli. La faccia senza volto. Il corpo esangue. Ti bacio. Premo. Perché voglio anch’io ridurmi come quell’immagine nello specchio. Senz’anima.
Perché voglio uccidere l’ideale. Benvenuta meccanicità concretezza insensata. Voglio possederti in qualche modo.
Te che non ho mai avuto, che voglio sapere che esisti.
Le dita scivolano. Il tuo collo. Scivolano. Una cicatrice all’altezza del mento. E per un momento mi sembra di ritrovarti. Avevi corso troppo forte verso il confine del mare e le rocce ti avevano lasciato il segno. Sfioro quella C rovesciata come se volessi sanare una ferita. Ma è solo un battito. E tu ti dissolvi. Perché ormai il sogno è scarnificato. Disanimato.
Mi scosto mentre tu rimani imperturbabile. Me ne vado mentre tu sei sempre lì. Stessa faccia, stesso ritmo del respiro. La rabbia rassegnata, la poesia disillusa. Ti hanno spento.
Piove, il caldo si opacizza. Il treno. Ritorno. So che è un ritorno, ora.
Ho quella sensazione di quando manca qualcosa. Perso. Qualcosa di indispensabile, che sostiene il ritmo vitale.
Ma. Aspetto il mare. Quando arriva all’improvviso e squarcia lo sporco del finestrino e apre i rami di pioggia. Come fosse la prima volta.
Daniela Tieni è nata a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Scenografia e ha conseguito un master in Artiterapie. Viene selezionata per il catalogo e la mostra a Ilustrarte 2009, collabora con le riviste Giudizio Universale e Alice Baum. Pubblica nel 2010 la sua prima fanzine “Forte mi chiama” con Teiera; il suo primo libro s’intitola “Confesso che ho desiderato” (Campass Ed.) con testi di Giulia Belloni.
Fridainnamorata.blogspot.com
Cristina Cipriani è una collaboratrice di Rockit.